“Biglietti, prego”.
A parlare era stato un anziano signore con la barba bianca e il viso rubicondo che, nonostante non fossi mai passata di lì, aveva un’aria familiare. “Biglietti” aveva ripetuto a voce più alta, mentre la folla si accalcava all’ingresso del Museo.
“Il suo biglietto, signorina?” fece quindi l’uomo, questa volta rivolgendosi proprio a me. Così io mi sentii quasi in dovere di infilare le mani in tasca, fingendo di cercare un biglietto che in realtà non avevo mai acquistato. In tasca trovai però un biglietto sgualcito ma ancora leggibile di un treno che avevo perso per un soffio: lo porsi all’addetto, lui lo controllò e, senza farmi troppe domande, lo obliterò, indicandomi l’entrata con un gesto della mano.
Il Museo era un luogo labirintico, uno di quelli con le sale che si aprono l’una nell’altra, tutte uguali. Mi guardai intorno, chiesi a un paio di inservienti se per quella giornata fossero previste visite guidate o almeno dove potessi acquistare una piantina del museo, un’audioguida… Loro si limitarono a fare spallucce: non ne avrei avuto bisogno, parevano dirmi. Così, disorientata ma incuriosita, lasciai che l’edificio mi inghiottisse.
La prima sala in cui feci capolino era caratterizzata da una successione di belle cornici dorate, all’interno delle quali si potevano ammirare strani oggetti: un caffè che non avevo bevuto, la locandina di un film al cinema che non avevo visto, un libro la cui copertina non mi aveva convinto a sufficienza, una maglietta di cui era finita la mia taglia. E ancora, le fermate della metro alle quali mi ero dimenticata di scendere, gli appuntamenti annullati all’ultimo minuto, i 3×2 del supermercato a cui non avevo ceduto. Ero rapita da quella bizzarra collezione, e mentre percorrevo con lo sguardo ogni cosa, mi accorgevo dell’esistenza di cornici che avrei giurato non fossero lì fino a un istante prima: ecco quella volta in cui avevo preso la febbre e a scuola era successo un fatto che a raccontarlo non era la stessa cosa, ecco lo sguardo di quel passante che non avevo incrociato al semaforo, ecco addirittura la mia canzone preferita che era passata in radio un attimo dopo che avevo cambiato stazione. Erano loro, tutti quei piccoli “e se” che spesso occupavano i miei pensieri e sui quali a volte mi sorprendevo a fantasticare ad occhi aperti: mi trovavo nella sala delle Occasioni perse, ma prima che potessi perdermici io, fui attratta da un’altra sezione del Museo, più affollata della precedente.
Dovetti sgomitare per farmi largo tra la gente, ma quando fui abbastanza vicina alle opere d’arte lì custodite compresi il motivo di quel traffico inquieto: era la sala dei Sogni impossibili. La prima cosa che notai fu che le cornici si erano fatte più preziose, come intarsiate finemente da un abile artigiano: ognuna di esse racchiudeva un desiderio che ci aveva rapito il cuore ma che, in qualche maniera, era sceso a patti con la realtà. C’erano le ballerine, gli astronauti, i calciatori che alla fine non eravamo diventati. C’era quella città in cui avevamo progettato di trasferirci, una meravigliosa casa col portone rosso e il tetto spiovente dove avevamo immaginato di fare l’albero di Natale. C’era quella laurea che avremmo voluto prendere, quel podio dal quale avremmo voluto ringraziare la mamma. C’era un’idea geniale che ci aveva tenuti svegli la notte ma che a colazione avevamo già dimenticato. C’erano le porte in faccia a cui nessuno ci aveva preparati e i troppo tardi a cui preparati, forse, non saremmo stati mai.
Con il cuore più pesante di prima, mi trascinai nell’ultima sala del Museo, la più gremita di tutte: quasi si soffocava. La sala degli Amori mancati.
Erano tutti lì, in fila ordinata, dentro le più belle cornici che potessi mai immaginare: i baci non dati, le parole male interpretate, gli approcci fraintesi, le canzoni che non ci siamo dedicati, i primi appuntamenti a cui non erano seguiti i secondi. C’era un bicchiere di vino rosso, c’era quella e-mail che non avevo più inviato, c’era un momento perfetto, c’era il discorso giusto, c’era quello che avremmo potuto essere se solo.
C’eravamo io e te, una birra sugli scogli e nessun pensiero nella testa…
Rimasi in quel bizzarro Museo per un tempo indefinito, finché un “Signorina, siamo in chiusura” non mi strappò da quel sogno ad occhi aperti. “Non può restare qui per sempre” continuò la voce. Gli occhi severi ma rassicuranti dell’anziano bigliettaio incrociarono i miei, pieni di malinconia.
“È naturale che si senta così, sa. Tutto perfettamente nella norma, in un posto come questo”.
“Che posto è questo?” chiesi, pur conoscendo già la risposta.
“È il Museo delle Cose mai state. Qui vengono custodite, catalogate, restaurate e incorniciate le vite che non abbiamo vissuto, quelle che ci siamo lasciati alle spalle senza neanche voltarci indietro, quelle che ci sono state negate dal gioco imponderabile delle casualità, ma che, in qualche modo, continuiamo a vivere”.
Assunsi un’espressione interrogativa.
“Sì, perché ad un certo punto ci prende la tentazione di andare a sbirciarle, di controllare che stiano sempre lì dove le avevamo lasciate o persino di immaginarle nei minimi dettagli”. L’uomo fece una pausa, ma poi, quasi anticipando ogni mia possibile obiezione, aggiunse: “Il più delle volte tendiamo a crederle migliori. Tendiamo a classificarle come rimpianti, o fallimenti. Ne portiamo il peso, talvolta troviamo rifugio nella loro confortante impossibilità, talvolta le usiamo come alibi per la vita che, invece, abbiamo. Il pericolo è proprio questo: che la vita che abbiamo, la nostra vita, possa diventare un pallido fantasma delle vite che non abbiamo potuto o voluto vivere”.
“Ma se quelle vite non esistono…” azzardai, senza neanche troppa convinzione. “Chi ha detto che non esistono? Non solo quelle vite esistono, ma svolgono un ruolo fondamentale nella nostra: stanno lì a ricordarci che è possibile solo una vita, ma anche che questo limite è, in realtà, uno strumento: è dalle cose non vissute, con tutto il senso di frustrazione e insoddisfazione che portano in sé, che dobbiamo imparare a districarci nell’illusorio labirinto delle possibilità, a fare scelte più consapevoli, a riconoscere l’irrinunciabile quando ce lo troviamo davanti. E infine a dir loro addio. O chissà, arrivederci…”.
Mentre quel saggio bigliettaio si allontanava con un cenno della mano, mi guardai intorno: la folla si era dileguata, gli inservienti avevano finito il turno. Ero rimasta sola, ma non fu questo a lasciarmi senza fiato. In quel Museo delle Cose mai state c’erano infinite cornici dorate. Ma ai miei occhi, e non senza un po’ di nostalgia, quelle cornici erano diventate improvvisamente vuote.
(Questo racconto non sarebbe esistito senza la mia amica Eugenia, che fortunatamente esiste nella mia vita,
e il libro “Solo bagaglio a mano” di Gabriele Romagnoli che fortunatamente ho letto.
Ah, e naturalmente le vite che non ho vissuto).
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