storie

L’Ospedale dei Cuori Rotti

Alla fine mi portarono all’Ospedale, nonostante mi ostinassi a ripetere che non ce ne fosse bisogno. Stavo bene. Ma loro non vollero sentire ragioni. E così mi ritrovai nel corridoio angusto e affollato di quello che sembrava un pronto soccorso, in attesa della mia diagnosi. La quale, quando arrivò, mi lasciò a bocca aperta.

Quando venne il mio turno, un anziano infermiere dalla barba bianca e il viso rubicondo mi puntò una luce in entrambe le pupille, mi fece cacciare fuori la lingua, mi chiese di saltare su me stessa e di fare una giravolta. Eseguii tutto alla perfezione, senza accusare dolori particolari né perdita di equilibrio. Ma lui si limitò a dire, scuotendo leggermente la testa: “Proprio come pensavo”. A quel punto, i miei accompagnatori mi si fecero attorno, diffondendo nell’aria un coretto scoordinato di domande: “Cos’ha?”, “È grave?”, “Si riprenderà?”.
“È grave – asserì lui – ma siete arrivati giusto in tempo”.
Il coretto riprese, ancora più fitto − “Te l’avevo detto”, “Dovevamo arrivare prima”, “Per fortuna”, “Cosa dobbiamo fare?” − finché non fui io a interromperlo: “Sì, signore… ma cos’ho, di preciso?”.
“Questo sarà il Dottore a dirlo. Ultima porta in fondo al corridoio”.
Il sorrisetto scettico che avevo sul volto cominciò a morire. Mentre io ero in uno stato confusionale, i miei accompagnatori cominciarono a muoversi, compatti, verso la stanza del Dottore. E così li seguii.
Marciavamo speditamente, ma ebbi l’impressione che più noi ci avvicinassimo alla porta, più questa si allontanava da noi, come se il corridoio si prolungasse a mo’ di fisarmonica, rivelando sempre nuove porte, da entrambi i lati. Pur mantenendo il passo sostenuto, riuscii a leggere qualche targhetta: sulla destra c’era “Brutto voto all’interrogazione”, “Perdita del treno”, “Sindrome del lunedì mattina”. Sulla sinistra, invece, scorsi “Cattiva decisione presa a fin di bene”, “Rimprovero immeritato”, “Dipartita del pesce rosso”.
Bazzecole, pensavo tra me e me. Sarebbe tutto passato nel giro di qualche giorno, con o senza cura. Ma più avanzavamo nel corridoio, più le targhette si facevano serie e minacciose: “Fine delle vacanze”, “Trasloco”, “Nostalgia di un’epoca mai vissuta”. Ci si abitua anche a quello, riflettei, ma con un po’ di amaro in bocca.
Arrivammo poi in una sezione particolarmente affollata. E dalla quantità di peluches malandati e ridicoli cuscini a forma di cuore, era facile capirne il motivo. Era il reparto “Fine di una storia d’amore”, che a sua volta si divideva in vari sottoreparti: “Fine di una storia d’amore mai nata”, “Fine di una storia d’amore per tradimento”, “Fine di una storia d’amore perché ‘non sei tu, sono io’”, “Fine di una storia d’amore per sparizione aliena”. Due porte, in particolare, attirarono la mia attenzione: “Fine di una storia d’amore brutta” e “Fine di una storia d’amore bella”. Guardai quei poveretti con compassione. Loro sì che avevano tanto su cui lavorare, ma alla fine ce l’avrebbero fatta, ne ero certa.
Poco oltre, c’era un reparto molto curioso. Quello che mi colpì subito era lo sguardo perso delle persone che si stipavano fuori le porte. Poco dopo ne capii il perché: quel reparto era dedicato alle tecnologie e ai nuovi mezzi di comunicazione. Davanti alla porta con su scritto “Visualizzato e non risposto” c’era gente che macinava rabbia e delusione badando a non darlo a vedere. Poi fu il turno di “Depressione per le vite perfette degli altri” e “Gruppi che non riescono a fare appuntamento”. Almeno qui – pensai con un po’ d’amarezza – sono riusciti ad incontrarsi.
Dopo quella che pareva una maratona, arrivammo a destinazione. Per essere quella dell’ultima porta in fondo al corridoio (oltre persino le due spunte blu!), la mia situazione doveva essere grave. Ma di quanto fosse grave, me ne resi conto solo quando un’etichetta appena lucidata si riflesse nei miei occhi stanchi: “Disincanto”.
La porta era semichiusa: dalla fessura usciva un lieve bagliore. Entrai senza bussare, come se fossi attesa. E non mi sbagliavo.
“Finalmente, la stavo aspettando” mi disse il Dottore. Aveva un’aria familiare. “Ce ne ha messo di tempo, signorina”.
“Ehm… a dir la verità, non credevo fosse così urgente”.
Il Dottore scosse la testa. “Tutti la stessa risposta, da non credere”.
Con fare incerto e un po’ colpevole, mi chiusi la porta alle spalle. Il Dottore si alzò dalla sedia e mi si avvicinò: in quel momento mi resi conto che mi arrivava all’ombelico. Mi chinai.
Il Dottore mi puntò di nuovo la luce nelle pupille, poi mi ispezionò le orecchie, mi controllò la lingua, mi prese la pressione, mi misurò il polso, prese nota della temperatura. Tutto come fosse un medico di base qualunque. L’unica differenza rispetto a un medico di base qualunque era che ciò che scrisse su carta intestata – me ne accorsi poco dopo – era perfettamente leggibile, con grafia da seconda elementare.
Mentre il Dottore continuava a scrivere – stava riempiendo quasi due pagine – mi feci coraggio e chiesi: “Mi riprenderò?”. “Ma certo” rispose il Dottore, con un gran sorriso. “Lei è forte, più di quanto crede”. Paradossalmente, quella risposta mi fece mancare le forze.
“Ha un po’ paura? In effetti, è la peggiore delle malattie che curiamo in quest’Ospedale. Ma, come ho già detto, lei è molto forte. Mi dica… da quant’è che non è Natale?”.
Quella domanda non aveva senso. “Da dicembre”, risposi balbettando.
“Mhm… proprio la risposta che temevo. E mi dica… quando è stata l’ultima volta che ha viaggiato?”.
“La scorsa estate sono stata in Grecia”.
Il Dottore ne prese nota in quello che ormai era un saggio medico a tutti gli effetti.
“Mi faccia indovinare… ad un certo punto della sua vita ha smesso di inviare cartoline. Una sgarbatezza di un amico non le ha provocato alcuna fitta nel costato. Si è lasciata convincere che vale la pena fare solo ciò che può arricchirla, anche se non le dà niente. Si è limitata ad accantonare, ad accettare, a distrarsi. E la luce nei suoi occhi ha iniziato a infiacchirsi”.
Annuii, sempre più veementemente. Cominciavo a capire. Provai a giustificarmi: “Sa… la vita, le delusioni…”.
“È proprio questa la causa principale del Disincanto. Ogni giorno le delusioni, i fallimenti, le brutture della vita, le meschinità delle persone minacciano ciò che, più di tutto, impedisce al cuore di rompersi in mille pezzi: lo stupore. Quella capacità di sorprendersi delle cose nuove ma anche di quelle meno nuove, di credere con intensità, di dare importanza ai giorni anche solo facendoci caso. Vede, il sole sorge sopra di noi ogni mattina anche se non ce ne accorgiamo. Ma la bellezza… quella no, esiste solo se ci ricordiamo che esiste”.
“E che dovrei farci con le delusioni, i fallimenti, le brutture della vita e le meschinità delle persone?” contestai, sulla difensiva.
“Se le prende, naturalmente. Se le prende, come è stata abituata a prendere i buoni consigli, le lezioni importanti e le carezze. Se le prende, ma senza lasciare che siano loro a prendere lei”.
Il Dottore aveva smesso di scrivere. Mi porse la ricetta: scorsi rapidamente ogni riga alla ricerca di ciò che, in quel momento, avevo urgenza di conoscere.
“Dottore, forse ha dimenticato di indicarmi la cura. Cosa devo fare?”.
Ma prima che il Dottore potesse rispondermi, io avevo già capito.
Ogni volta che ne avessi avuto bisogno, sarei dovuta tornare nell’ultima stanza in fondo al corridoio dell’Ospedale dei Cuori Rotti. Dove una bambina dall’aria familiare mi avrebbe re-insegnato l’arte dello stupore.

 

***
Della stessa serie, leggi anche il racconto Un giorno, forse.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.