Nella vita siamo soliti contare ogni cosa: i soldi, gli anni, i chili, i likes.
Ogni cosa, ma non le parole.
Di parole, ne pronunciamo tante (forse troppe?) ogni giorno, consapevoli di averne a disposizione una riserva inesauribile. Il rischio, però, di non contare le parole è quello di finire per credere che esse non contino affatto: e se un mattino ci svegliassimo e rimanessimo – letteralmente – senza parole?
A porre questa domanda (paradossale ma, a pensarci bene, neanche più di tanto) arriva, prendendosi un posto d’onore nella mia libreria e nel mio cuore, VOX, il romanzo d’esordio di Christina Dalcher.
Ecco, se io e Christina Dalcher fossimo state due personaggi di VOX, il tavolino del Gambrinus al quale ci siamo date appuntamento un pomeriggio di dicembre, sarebbe rimasto vuoto. Perché le donne, in VOX, possono pronunciare solo 100 parole al giorno.
E invece, sopra quel tavolino del Gambrinus, quel pomeriggio di dicembre, c’erano un libro, due caffè (uno espresso, l’altro deca macchiato) e un mare di parole. Tra le più significative della mia vita (perché non capita tutti i giorni di acquistare un romanzo, leggerlo, amarlo dalla prima all’ultima pagina, e poi finire per un’assurda coincidenza a bere un caffè insieme alla donna che l’ha scritto).
Ma torniamo alle parole: tra me e Christina ci sono state parole in italiano, in inglese, qualcuna persino in latino e in greco. Ci sono state parole importanti, parole terrificanti, parole d’amore. E, com’è naturale per due persone che in comune hanno la passione per la linguistica, parole sulle parole. La prima delle quali è stata, ovviamente, “vox”. Il romanzo di Christina Dalcher ci dà tante cose su cui riflettere già dal titolo: un monosillabo, un’unica emissione di fiato tuttavia capace di rompere il silenzio (e non solo letteralmente parlando): «Ho sempre amato i titoli corti, che descrivono qualcosa senza spiegarla direttamente. In più, per il titolo di questo libro volevo qualcosa con un po’ di effetto punch. “Vox” è una parola latina, che non ha bisogno di traduzione. L’ho scelta perché ha un duplice significato: il primo è la voce in senso stretto, la facoltà di parlare che è propria dell’essere umano e che lo contraddistingue come tale. Il secondo è metaforico: è la capacità di farsi sentire, è la voce pubblica, la voce politica. Quando votiamo, ad esempio, stiamo esprimendo la nostra voce anche senza parlare. Quando una persona rinuncia a usare la propria voce, non si può lamentare se i risultati sono deludenti».
A proposito di politica, quello rappresentato da Christina Dalcher nel proprio romanzo distopico è un regime totalitario, animato da un purismo non dissimile a quello che leggiamo nelle peggiori pagine della nostra storia, che utilizza il silenzio come strumento per sopprimere la libertà delle donne: «Come linguista, riflettevo sulle conseguenze di un silenzio imposto dall’alto. Così scrissi un racconto di circa 3500 battute che poi ha costituito lo scheletro di VOX. Il mondo che ho immaginato è un’America del futuro. Io credo che il Paese storicamente più libero nel mondo siano gli Stati Uniti d’America e parlo di diritti personali, diritto di parola, di religione. Ma le cose stanno cambiando. Ormai i partiti politici sono così divisi che non si parlano nemmeno. Tutti partono dalla certezza di avere ragione assoluta e se la tua idea è diversa dalla mia allora è sbagliata. Questa si chiama υβρις. Non so se la colpa sia dell’inondazione di informazioni a cui siamo sottoposti ogni giorno o di questa nostra inabilità ad avere dialoghi, ad ascoltare l’altra persona». C’entrano qualcosa i social network? le ho chiesto a quel punto. «Sì, esatto. Mi spaventa un po’ l’epoca in cui viviamo perché, nonostante la popolarità di tutti questi mezzi di comunicazione, stiamo andando dalla parte opposta. Non riusciamo veramente a conversare, perché tutta la comunicazione è a senso unico: ad esempio, scrivo un messaggio su Internet e voglio che tutti mettano un like… a questo punto mi domando: me ne frega davvero di quello che pensano o per me è importante solo che gli “piaccia”?».
Il romanzo di Christina Dalcher credo che sia, in questo senso, un appello ad aver paura del silenzio. Sì, devo confessare che VOX mi abbia fatto tremare (è grave che abbia iniziato a piangere a pagina 13 e che una parte di me non abbia ancora smesso?): «Anche io avevo i brividi mentre lo scrivevo!» mi ha risposto Christina. «Per quanto riguarda le scene più “macabre”, la colpa è del fascino che Stephen King ha su di me. Non si può definire VOX un libro horror, ma dopo aver scritto alcuni passaggi di questo romanzo, mi sono detta: “Christina, hai scritto una scena terrificante”». L’essermi affacciata per un attimo sull’altro lato della pagina mi ha suggerito la domanda successiva: dove hai scritto Vox, Christina? «L’ho scritto su un tavolino piccolissimo: c’era soltanto il laptop, il posacenere e il caffè. C’è una parte della mia casa che si affaccia sulla strada, dove c’è molta luce, io scrivo là. Ho provato ad avere uno studio ma non ci sono riuscita: è troppo lontano dal cuore della casa. Anche se mio marito è sempre a casa e ci sono i vicini che passano col cane, quando scrivo ho come un filtro: quando trovo il “buco” nella pagina, il mondo potrebbe andare a pezzi intorno a me e io non me ne accorgerei». Ed è stato proprio a quel punto della conversazione che mi sono resa conto di quanto una napoletana e un’americana, per quanto fossero diverse le loro vite e i loro caffè, fossero capaci di parlare la stessa lingua. E non (solo) quella fatta di parole.
***
Leggi altre interviste ai miei scrittori del cuore:
One Comment
Christina Dalcher
Oh, cara Simona, che bellissimo post! Mille, mille grazie. Non vedo l’ora di rivederti quando tornerò a Napoli!
Un forte abbraccio e una montagna di baci,
Christina