È una domanda più che lecita, quando ti capita di incontrare Chiara.
La prima risposta, quella più banale, che ti viene in mente è sicuramente: un cappello, perché Chiara (Reale, manager d’arte e cultura ndr) non esce mai senza, neanche e soprattutto se deve andare a fare la spesa. Ne ha tantissimi – circa trecento – ma mai troppi, tutti conservati con cura, avvolti in involucri di carta velina o ben accomodati nelle rispettive cappelliere. Ognuno di essi proviene da un luogo e da un tempo diverso, e le porta alla mente una storia: un viaggio, la sua attrice preferita, un fatto storico, il volto di una persona speciale.
Chiara mi apre la porta di casa e mette a bollire l’acqua per il tè. Nell’ambiente c’è una bella luce. Tutt’intorno ci sono montagne di libri, fantasie diverse ma ben accostate tra loro, voci di Napoli, oggetti di design, fotografie. C’è arte, ma quella che si fonde con la vita vera. C’è il bianco, c’è il nero e tutti i colori possibili che vi passano in mezzo. C’è un gattone di nome Teodoro. E ci sono, naturalmente, i suoi cappelli.
I motivi che sono alla base della sua collezione (spesso formata da veri e propri capolavori di artigianato) sono – essenzialmente – tre e ognuno di essi dice qualcosa di importante su di lei:
- Chiara ama le piccole eccentricità, le cose desuete: dice di avere la “sindrome della pecora nera”, che consiste nell’andare sempre contro al movimento della massa, ma che, si badi bene, non deve diventare diversità ad ogni costo.
- Chiara è una persona autoironica: una cosa che si poggia sulla testa – afferma sorridendo – è pur sempre una cosa buffa.
- Chiara crede nell’utilità della bellezza: fare un gesto, utilizzare un oggetto che non è – strettamente – necessario ed oltretutto ‘fuori moda’ (almeno di questi tempi) significa aggiungere un po’ di sale alla giornata e alla vita in generale, che altrimenti si ridurrebbe a una serie di azioni che facciamo sempre e solo per un fine. E’ inoltre fermamente convinta che la passione per qualcosa di “inutile” sia in realtà cosa utilissima, senza la quale saremmo solo degli automi.
Dopo aver bevuto una tazza di tè cinese, e sotto lo sguardo un po’ pigro ma pur sempre vigile di Teodoro, Chiara mi mostra i suoi cappelli preferiti. Da un’antica scatola di cartone tira fuori una bombetta classica, regalo di suo marito. È il cappello più antico che ha, di fine Ottocento, quando Borsalino non aveva ancora un punto vendita tutto suo.
Mi mostra quindi due acconciature, una nera con piuma, l’altra bianca a forma di virgola, realizzate a Napoli da Antonietta della Modisteria Emma per l’occasione delle occasioni: il giorno delle sue nozze.
È la volta poi di un diplomatico, che porta il marchio di Giosué Russo, uno dei pochi cappellai in Italia a fare ancora cappelli su misura, e che le ricorda tanto il film Sabrina (dove il cappello serio di lui diventa un gioco tra due innamorati).
Ogni cappello racconta un’epoca storica (con le sue convenzioni, i suoi riti, le sue esigenze) oppure tira in ballo un personaggio che, con il suo agire, l’ha reso molto più di un semplice copricapo: l’ha reso cultura.
A questo punto della nostra conversazione mi torna in mente la domanda: “Chiara, che ti sei messa in testa?” anche se stavolta mi sovviene una risposta diversa.
Niente sovrastrutture né orpelli puramente modaioli. Ma idee, ricordi e quella sacrosanta libertà di essere sé stessi.
Un po’ Charlie Chaplin, un po’ Audrey Hepburn.