Stamattina, mentre instagrammavo il mio cappuccino prima di tuffarci dentro un cornetto ai cereali, pensavo che ormai siamo tutti un po’ influencer.
E ci penso ogni volta che un’amica mi chiede dove abbia fatto colazione nel week-end o dove abbia comprato quella t-shirt super figa, oppure dove sia stata per le vacanze di Natale. Sì, ormai siamo tutti un po’ influencer ma in fondo lo siamo sempre stati – anche prima che le parole #mipiace acquisissero un significato molto più complesso del semplice e ingenuo “mi piace”. Lo siamo sempre stati nella misura in cui la nostra vita inevitabilmente “influenza” la vita di chi ci è attorno e questo è il motivo per cui – graziealcielo – nella nostra stessa vita c’è arricchimento, confronto, crescita. Ma nel tragitto in cui quello di #influencer è diventato un lavoro più ambito e spesso più retribuito di altri che richiedono profili di competenze-e-conoscenze sempre più alti, credo che qualcosa sia andato storto.
Ero ormai intenta a scegliere con una meticolosità chirurgica il #filtro con cui rendere ancora più carino il mio cappuccino, quando una serie di domande mi si sono fatte largo nella mente: da quando abbiamo deciso di condividere con gli altri #solocosebelle? Da quando abbiamo finto di divertirci ad un party noiosissimo solo per poter dire #iocero? Da quando abbiamo trasformato i nostri profili Instagram nella vetrina di una #bellavita anche quando non era poi così bella? Da quando i nostri #followers ci fanno sentire delle star inseguite dai paparazzi per strada? Ma soprattutto: da quando i numeri sul nostro #profilo hanno iniziato a definire chi siamo?
È triste pensare che – certe volte – diventiamo spazi pubblicitari viventi. Che non tutto ciò che rendiamo pubblico corrisponda al nostro pensiero e al nostro gusto personale – a partire dalla tisana che promette miracoli in fatto di #detox al braccialetto che indossiamo in una foto in cui sembriamo distratti -. E’ triste che – per alcuni – se non siamo su internet, allora non esistiamo.
Non voglio ignorare che la pubblicità sia sempre esistita e che quello sui social network non sia altro che un nuovo concetto di marketing e comunicazione che molto spesso è fatto con le suddette conoscenze-e-competenze, e funziona. Vorrei soltanto che certe parole ritornassero ad assumere il loro significato. Che se ti dico “mi piace” la tua t-shirt, tu capisci che mi piace la tua t-shirt e null’altro.
E che “condividere” – quello che siamo, quello che mangiamo, quello che indossiamo – torni ad essere uno dei verbi più belli che esistano.