Sono.
Partita e poi tornata. Ma forse non ancora del tutto.
Diventata ventiduenne mentre guardavo Atene dalla K luminosa dell’Hotel Katerina e ripetevo a telefono l’ennesimo grazie: di avermi fatta sentire vicina proprio quando ero lontana.
Fatta della stessa sostanza di cui è fatta la pita.
Stata eterna per un secondo.
In cima ad un’Acropoli da cui è più facile toccare il cielo. E credere in un qualcosa: qualunque esso sia.
Isola ma mai sola se c’era quella banda di matti a dividere con me il letto, il tempo e l’asciugacapelli.
Capace di trovare poesia nel bel mezzo del Tropicana.
Bianca e blu come quella che per una settimana ho chiamato casa. Sottile come la linea di confine tra l’essere ancora svegli e l’essere già svegli che è l’alba. Assolata con forti raffiche di vento.
Amica, mamma e nonna.
Innamorata di Little Venice che se c’è ancora un minuto di sole è lì che voglio trascorrerlo, con i mulini alle spalle e di fronte il mare.
Guapaloca che balla salsa a piedi nudi sulla spiaggia. Scatenata finché è la musica – e Sasà che ha elefanti dove non si dovrebbero avere elefanti – a chiederlo.
Yogurt dolce col retrogusto acido.
Perché se è vero che siamo ciò che mangiamo, tocchiamo, vediamo e sentiamo, se è vero che siamo ciò che viviamo, una piccola isola greca: io sono.