Le avevo chiesto dieci minuti e un abbraccio.
Ma lei, come fanno tutti quelli che tra dare e ricevere non c’è poi tanta differenza, mi ha dato molto di più.
Mi ha dato ciò che una persona ha di più prezioso: la sua attenzione – il gesto più vicino all’ amore che conosca – e il suo tempo. Che probabilmente saranno stati dieci minuti, ma di quelli che, lei lo sa bene, è difficile stabilire quanto durino effettivamente.
Ed è stato così che un pomeriggio di pioggia a Milano, mentre credevo di andar a incontrare Chiara Gamberale, la scrittrice, in realtà ho conosciuto Chiara: l’amica. La madre “troppo figlia”. La donna che ama scrivere almeno quanto ama amare. Bella di quella bellezza che si tiene bene alla larga dall’idea di perfezione attenta com’è a rintracciare il vero.
L’ho conosciuta in queste circostanze: alla Triennale di Milano il 2 ottobre alle 3 del pomeriggio, durante quello che il Corriere della sera ha chiamato “Il tempo delle donne”.
Eppure oggi mi ritrovo a riflettere sul significato del verbo conoscere se io quell’anima chiaroscura l’avevo già conosciuta in un libro dalla copertina azzurra e tra le pagine patinate del mio adorato Vanity Fair e tra i post di Facebook letti all’angolo del semaforo. Se alcune delle sue parole erano state per me un abbraccio. Un confronto e un conforto. Qualcosa di così vicino al mio cuore da sentirne quasi il tocco.
Quando poi mi sono ritrovata a raccontarle la mia vita e ho visto i suoi occhi accendersi di comprensione ho capito che io e lei, quel venerdì alle 3 di pomeriggio, non ci eravamo semplicemente incontrate: ci eravamo trovate.
«Sento che siamo dalla stessa parte della barricata» mi ha detto. Questo mi da conforto, il non esserci da sola. Fondamentalmente mi da conforto essere capita: ancor più che conosciuta, capita. Noi – lo vedo dalla faccia, dalle cose che mi hai detto – siamo per il “pensare con la propria testa, sentire col proprio cuore”. Mettere in discussione tutto. Non prendere mai le realtà preconfezionate dagli altri ma chiedersi: cosa è bene? cosa è male?»
Ed è questo che adoro di lei, le ho risposto io. Quel suo scardinare e reinventare valori, rimanendo sempre fedele a se stessa. E quel modo tutto suo di trovare rimedi all’esistenza.
Un’espressione, questa dei rimedi all’esistenza, che ho letto e riletto più volte in lei al punto che non ho potuto fare a meno di chiederle: quali sono i tuoi rimedi all’esistenza? «Di solito utilizzo questa espressione per parlare del mio grande rimedio all’esistenza che è la scrittura. Fin da piccolina vivere la realtà mi faceva fatica: non la capivo, ne soffrivo le regole, quelle feroci ma anche quelle non feroci. E quindi, figlia di un ingegnere e di una ragioniera, ho cominciato a leggere e a raccontare storie piccolissime. La fantasia, l’originalità sono rimedi all’esistenza, che però sono anche in grado di cambiarla, di renderla più sopportabile.»
Una realtà che le fa fatica, sì. Ma che continua, comunque e imprescindibilmente, ad affascinarla. A meritare la sua attenzione. A ispirarla proprio perché le fa un po’ paura.
«La mia fonte di ispirazione è attorno a me» mi dice «Ascolto chiunque come se sapesse darmi una soluzione che a me manca. Mi ispirano le situazioni come il supermercato, le case (le case mi interessano da morire), dove l’umanità dà il meglio e il peggio di sé».
A quel punto le chiedo della sua, di casa. E in particolare del suo comodino perché quelle come noi sul comodino hanno ciò che a fine giornata le rapisce per un po’:«Sul mio comodino c’è il nuovo libro di Javier Marías, che si intitola “Così ha inizio il male”: l’ho appena cominciato. Lui è un autore di cui ho amato tantissimo “Domani nella battaglia pensa a me”. C’è questa frase che è brutale: che le persone che abbiamo amato si trasformino in passato. Quanti abbandoni ci sono nei miei libri»
Quante fini, ma anche quanti inizi: a partire da sé stessi, il più delle volte. Ma anche grazie agli altri. Agli amici, quelli di sempre, quelli che assomigliano ad angeli per il solo fatto che si prendono cura di te. E allora «Parlami di Massimo Gramellini» le ho chiesto. «Oggi è il suo compleanno: compie 55 anni ma è come se ne compisse sempre 16 o 100, come tutte le persone speciali. Eravamo amici prima di scrivere “Avrò cura di te”, scriverlo ci ha fatto diventare fratelli perché abbiamo capito, forse anche tardi, che non è che lui è Filemone e io Giò. Tutti siamo, a seconda dei periodi, Filemone o Giò, più bravi a dare risposte o più bravi a fare domande, o magari più bravi a cercare anche solo la domanda giusta. E’ un rapporto molto profondo, il nostro, ma anche divertente: lui ha un grandissimo senso dell’ironia, che è un altro rimedio all’esistenza. Speriamo di fare altre cose insieme, non ci vogliamo lasciare.»
Bello sentirlo da una che, nel bel mezzo dell’era tecnologica, viaggia con un telefonino preistorico e sogna un’isola. L’isola perché lì tutto quello che manca la fa stare meglio. L’isola perché essere immersa nella natura, e nelle persone che ama, l’ispira. Ed è su un’isola, la greca Skopelos, che ha scritto il romanzo che uscirà a febbraio, dove, mi sussurra quasi all’orecchio, ad ispirarla sono state proprio le paure. I sabotaggi che ognuno di noi mette in atto per realizzare quello che vuole.
A quel punto io e Chiara parliamo, anche senza parlare, di scelte. E soprattutto di coraggio. Quella parola che a pronunciarla ci fa quasi tremare la voce ma che – me l’ha insegnato lei – è condizione necessaria a vivere. E alla felicità.